Lorenzo
Non riuscii a contenere un piccolo sorriso di trionfo quando
vidi Mia Madison varcare la porta del Bridge.
Sapevo che aveva rifiutato il mio pass e che solo
l’intervento di uno dei suoi amici l’aveva salvata. Nessuno era così pazzo da
insultare un Orlando declinando un suo regalo, anche se a Mia non sembrava
importare molto del mio cognome e del ruolo che ricopriva in questa città.
Il sorriso mi si aprì ancora di più quando la vidi togliersi
la giacca leggera in lino bianca e mostrare un vestito azzurro, piuttosto
accollato, anche se aveva una profonda scollatura sulla schiena, e con la gonna
che le arrivava al ginocchio.
Il suo look casto, reso ancora più semplice dal make- up
leggero e dalle tinte tenui, era un chiaro segno di come ci tenesse a non
venire di nuovo scambiata per un’accompagnatrice.
Per un attimo il suo sguardo incrociò il mio.
Entrambi facemmo un lieve cenno con il capo in segno di
saluto in direzione dell’altro, ma i suoi occhi rimasero incollati ai miei per
una frazione di secondo di troppo per non farmi intuire che forse anche lei
aveva pensato a me per tutta la settimana, com’era successo a me.
Era stato difficile cancellare dalla mente una donna che mi
aveva detto che sembravo un avanzo di galera e che mi aveva sfidato così
apertamente, nonostante la intimorissi.
Lasciai il mio sguardo scorrere lentamente su di lei alla
ricerca di quella ragazza trasgressiva e disinibita, ma non sembrava essercene
più traccia.
Era semplice e bellissima.
I suoi occhi azzurri con delle lievi sfumature viola
risaltavano grazie all’ombretto lillà e le labbra piene erano appena colorate
da un rossetto rosato.
A differenza della volta scorsa, ora sembrava molto più
giovane. Non le davo più di venticinque anni e quel suo modo sempre aggraziato
e raffinato con cui si muoveva, si sedeva e si portava alla bocca il Bellini
che aveva ordinato… aveva qualcosa di sensuale e affascinante.
Avevo subito capito che aveva studiato e non era una semplice
accompagnatrice quando le avevo parlato e ora, vedendola in tutta la sua
semplicità, mi resi conto che era più di quanto lasciasse intendere. Tuttavia
la sua timidezza e riservatezza che mostrava quando il ragazzo con cui parlava
la toccava, mi faceva intuire che c’era qualcosa di strano in lei. Era come se
temesse il contatto fisico, quasi come se le desse fastidio…
Anche con me era stata ritrosa, ma avevo letto paura nel suo
sguardo, mentre ora leggevo irritazione e antipatia, seppur nascoste dietro a
sorrisi affettati e gesti misurati ma poco incisivi per far tenere a posto le
mani a quel ragazzo.
Mi godetti quel suo sforzo di contenere il nervosismo e di
mostrare sempre una maschera di ragazza perbene, anche se sotto sotto era
evidente che avrebbe voluto prendere a schiaffi il suo accompagnatore.
Dalla mia postazione rialzata, mi godetti tutto lo
spettacolo, chiedendomi quanto ci avrebbe messo a perdere le staffe.
Inoltre la sua amica Chelsea non sembrava accorgersi di
nulla, tanto era presa dalle effusioni con il ragazzo con cui stava già la
settimana scorsa.
Ad un certo punto, l’accompagnatore di Mia si mise a giocare
con i suoi lunghi capelli biondi.
A quanto pareva, quel gesto le diede molto fastidio perché
scattò in piedi e con una scusa si diresse verso la toilette.
Stavo per rivolgere di nuovo l’attenzione al mio bicchiere,
quando vidi il ragazzo seguirla in bagno.
Conoscevo quel sorriso arrogante e sapevo cosa sarebbe
accaduto a breve.
Di norma avrei chiamato un cameriere per dirgli di
intervenire, ma questa volta sentivo le mani prudermi e, se avessi scoperto ciò
che temevo, non avrei esitato a prendere a pugni il malcapitato.
Con una certa nonchalance mi diressi verso la toilette delle
donne.
La trovai chiusa.
Bussai e per tutta risposta sentii un urlo subito soffocato e
qualcosa che cadeva per terra.
Non volevo sollevare uno scandalo o spaventare i miei clienti
dato che la reputazione del locale era basata proprio sulla discrezione, pertanto
evitai di prendere a spallate la porta o di gridare di aprire.
Chiamai subito Jacob, il mio vice, e mi feci portare le
chiavi del bagno.
In un attimo il mio amico aprì la porta.
Mi fiondai nel bagno, mentre Jacob richiudeva la porta alle nostre
spalle.
Mia era sdraiata a terra e aveva una guancia arrossata,
mentre il ragazzo aveva la cerniera dei pantaloni aperta e le stava sopra,
bloccandola per i polsi.
Scaraventai quel bastardo lontano e mi chinai su di lei.
Le scostai i capelli dal viso ma, appena le mie dita le
sfiorarono la guancia, lei sussultò e si allontanò dal mio tocco terrorizzata.
Con mia sorpresa, vidi una ciocca scura sbucare dalla tempia
e compresi che quella bionda era una parrucca.
«Mia, sono io, Lorenzo Orlando», le dissi lentamente,
prendendola per le spalle scosse dai singhiozzi. «Vieni, ti aiuto ad alzarti.»
Guardò a lungo la mia mano tesa, come se fosse qualcosa di
proibito e pericoloso, ma alla fine accettò il mio aiuto.
Con delicatezza la rimisi in piedi ma mi accorsi che doveva
essersi presa una storta perché zoppicava e il cinturino della scarpa destra
era strappato.
Prima che cadesse di nuovo, l’afferrai e la presi in braccio.
Era così disorientata e spaventata da quello che doveva
esserle successo che non oppose resistenza e si rannicchiò tremante contro il
mio petto.
Intanto Jacob si occupò del ragazzo.
«Se ti rivedo nel mio locale, ti faccio a pezzi», lo
minacciai prima che Jacob lo cacciasse fuori dal locale.
Uscii dal bagno e notai alcuni clienti inviarci sguardi
incuriositi. Solo l’amica di Mia sembrava sconvolta e corse da noi.
«Oh mio Dio… Cosa ti è successo?», urlò disperata, notando il
viso arrossato della ragazza.
«Va tutto bene», cercò di rassicurarla lei.
«Non va bene. Non va bene per niente… Cazzo, sono morta se ti
accade qualcosa!»
Quella frase mi allarmò perché sembrava davvero che Chelsea
ci credesse.
Avrei voluto approfondire, ma Sebastian, il mio manager, si
avvicinò.
«Dammi le chiavi di una stanza. La signorina si è fatta male
e ha bisogno di riposare», gli chiesi.
«Le camere sono tutte impegnate», mi avvisò preoccupato.
«Allora la porterò nel mio appartamento», conclusi risoluto.
«No!», esclamarono all’unisono Mia e Chelsea.
«Non vi preoccupate. Non è mia abitudine salvare una donna da
un tentato stupro per poi molestarla a mia volta. Sebastian, intanto chiama un
medico e la polizia, così la cliente potrà sporgere denuncia.»
«No!», quasi urlarono nuovamente Mia e Chelsea.
«Non occorre… Sto bene e non è successo nulla. Credo sia
meglio voltare pagina e non pensare più a questo inconveniente. Oltretutto non
intendo sollevare uno scandalo che possa nuocere alla reputazione degli
Orlando», si premurò di chiarire Mia in ansia.
Potevo sentire la puzza di guai dal panico che leggevo negli
occhi delle due donne.
«Ok, come preferite», stabilii, avviandomi verso il secondo
piano dove c’era il mio appartamento.
Portai Mia nella camera degli ospiti e la adagiai sul letto.
«Grazie», mi ringraziò timidamente.
«Ora puoi dirmi cos’è successo e cosa ti ha fatto quel
ragazzo?», arrivai a ciò che mi premeva di più.
«Mi stavo rinfrescando quando è entrato nel bagno. Ha chiuso
la porta. Mi sono arrabbiata e ha cominciato a spingermi. Ho perso l’equilibrio
a causa dei tacchi alti e sono caduta procurandomi una storta alla caviglia destra.
Pensavo che mi avrebbe aiutata e si sarebbe scusato… Invece mi è venuto addosso
e ha cominciato a… toccarmi… a dirmi di smettere di fare la preziosa… ho
cercato di colpirlo ma lui si è difeso e mi ha schiaffeggiata… Io… Io…»
«Poi?», sibilai tentando di tenere a freno la furia che mi
stava inondando la mente.
«Mi ha alzato la gonna e si è aperto la patta dei pantaloni…
proprio in quel momento hai bussato dicendo di aprire la porta. Ho cercato di
urlare ma mi ha tappato la bocca. Ho provato a liberarmi ma senza riuscirci e
alla fine sei entrato… Grazie per essere intervenuto», balbettò Mia ancora
provata.
«Era mio dovere. Nessuno può permettersi di fare certe cose
in casa mia o di molestare i miei clienti», risposi cercando di rimanere
distaccato, anche se in realtà ero così furioso che avevo solo voglia di
spaccare la faccia a quel figlio di puttana.
«Lorenzo», mi chiamò Sebastian.
«Vi lascio sole. Arrivo subito», mi congedai dalle due
ragazze, uscendo dalla camera con il mio manager.
«In bagno c’era questa», mi disse Sebastian porgendomi la
pochette di Mia. «Stai attento, Lorenzo. Non mi fido di quelle due.»
«Nemmeno io. C’è qualcosa sotto.»
«Forse potrai trovare qualche risposta qui dentro», mi
suggerì aprendo la borsetta.
Mi girai di schiena per non farmi vedere dalle ragazze, dato
che avevo lasciato la porta aperta.
Rovistai nella pochette e rimasi di sasso.
Dentro c’erano solo duecento dollari sparsi e la carta
d’identità di Mia Madison.
Guardai meglio il documento.
Falso!
Mi scambiai un’occhiata con Sebastian che mi fece un cenno
del capo per farmi capire che l’aveva notato anche lui.
«Quale donna esce di casa senza il cellulare?», mi disse con
il suo solito tono indagatore.
«Una che non vuole essere rintracciata o che è troppo povera
per permetterselo.»
«Opterei per la prima ipotesi dato che il vestito che indossa
non è uscito dai grandi magazzini.»
«Direi proprio di no», sibilai nervosamente.
«Che facciamo?»
«Ci penso io. Tu intanto chiama quel nuovo lavapiatti che
abbiamo assunto il mese scorso. Aveva detto che si stava laureando in
fisioterapia. Fallo venire qui per capire se la cara Mia Madison si è fatta
realmente male o se è tutta una messinscena. E poi cerca informazioni su di
lei. C’è scritto che è di Los Angeles. Scopriamo se è vero almeno questo.»
«Ho dei contatti lì.»
«Usali e poi vieni a riferirmi cos’hai scoperto.»
«E cosa facciamo con il molestatore?»
«Scopri chi è e distruggilo. Fagli desiderare di sparire
dalla faccia della Terra, specialmente da Rockart City», decisi ancora furioso.
Avrei fatto qualsiasi cosa per rovinargli la carriera o la vita. Solo l’esilio
dalla città avrebbe potuto salvarlo.
«Agli ordini!»
Come un fulmine, Sebastian si diede da fare.
Stavo per tornare nella stanza, quando sentii Chelsea arrabbiarsi
con Mia.
«Ti prego, alzati. Ti porto in braccio fino a casa se
necessario.»
«No. Te l’ho già spiegato.»
«Non puoi farmi questo! Io… io… Cazzo, non doveva succedere
una cosa simile. È tutta colpa mia!»
«Non dire sciocchezze.»
«Non avrei mai dovuto convincerti a venire con me.»
«Chelsea, va tutto bene», cercò di calmarla l’amica.
«Smettila di dire che va tutto bene!», gridò la ragazza in
preda all’isteria.
Prima che la cosa potesse degenerare, entrai in camera.
In un attimo le due donne tacquero.
«Come stai, Mia?», domandai.
«Ho un po’ male alla caviglia ma sto bene. Sono solo ancora
scossa per ciò che è successo», mi rispose mostrandomi la caviglia gonfia.
Per fortuna il mio lavapiatti, Randy, arrivò subito.
Lo presentai e Mia si lasciò toccare, mentre l’amica andava al
bagno a prendere un asciugamano bagnato per metterglielo sulla guancia e far
andare via il rossore.
«Non sono un medico e sono solo al penultimo anno di
fisioterapia ma la caviglia non mi sembra rotta. Con del ghiaccio dovrebbe sgonfiarsi
e, stando a riposo per un paio di giorni, dovrebbe tornare a posto. Certo,
sarebbe meglio fare una radiografia…», spiegò Randy.
«Sono sicura che un po’ di ghiaccio risolverà tutto», lo
rassicurò Mia.
In breve, Randy medicò Mia e io approfittai dell’assenza di
Chelsea, occupata con Sebastian che era interessato a conoscere il nome del
molestatore, per rimanere da solo con Mia.
«Va meglio adesso?», le domandai cauto, sedendomi sul bordo
del letto accanto a lei.
«Sì, grazie. Sono mortificata per il disagio che le sto
causando», mi rispose la ragazza tornando ad essere formale. A quanto pareva lo
shock era stato superato e stava tornando a riprendere il controllo di se
stessa.
«Diamoci del tu.»
«Ok», sussurrò flebile Mia poco entusiasta.
«Ti ho riportato la borsa», le dissi posando la pochette sul
letto.
«Grazie.»
«Vuoi che avvisi la tua famiglia?»
«No.»
«Vuoi che ti porti a casa? Se mi dai l’indirizzo, posso…»
«Non è necessario», si spazientì Mia. «Ma se per te la mia
presenza è un grosso disturbo, allora me ne andrò subito.»
«Sei mia ospite e puoi restare quanto vorrai.»
«Ho solo bisogno di riposarmi qualche minuto», mormorò
dolorante e sfinita Mia, chiudendo gli occhi.
«Prenditi tutto il tempo che ti serve.»
Non mi rispose nemmeno.
Si era addormentata.
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