martedì 7 gennaio 2020

Capitolo 4 di "Ti ho presa"


Ginevra


Seppur prestigiosa e di puro malto italiano, trovavo sconveniente bere una birra Menabrea in un locale simile. Inoltre non mi era mai piaciuta.
Decisa a ordinare il mio solito amato Bellini e a liberarmi di Mike e della sua disquisizione dettagliata fin nei minimi particolari sul motivo della rottura con la sua ex ragazza, mi alzai e andai direttamente al bancone a chiedere da bere.
Mi accomodai su uno sgabello e aspettai il barista, che venne immediatamente a servirmi.
«Un Bellini, per favore», ordinai gentilmente.
In un attimo il cameriere prese una pesca matura e si mise a frullare la polpa per poi farla filtrare con un colino a maglie strette.
Ero così incantata dai suoi movimenti fluidi e precisi, e dalla musica che stava suonando la musicista Folkner al pianoforte lì vicino, che non mi accorsi di una persona che si era seduta vicino a me.
«Buonasera», mi sussurrò all’improvviso una voce calda e profonda accanto, facendomi sussultare.
Mi voltai verso la mia sinistra e mi ritrovai a pochi centimetri da Lorenzo Orlando.
In un attimo sentii la gola ardere e asciugarsi completamente, mentre il mio cuore iniziò a martellarmi violentemente nel petto.
Dopo essermi fatta beccare tre volte a fissarlo, avevo fatto di tutto per distrarmi e dimenticare tutti i pericoli che stavo correndo stando lì.
Per fortuna i discorsi di Mike mi avevano aiutata ma ora mi sentivo sola, indifesa e totalmente vulnerabile per quella presenza elegante e minacciosa così vicina.
Cercai di rispondere al suo saluto, ma era come se ogni sillaba mi fosse rimasta incastrata in gola, soffocandomi.
Mi sembrava di bruciare sotto il suo sguardo ambrato, mentre mi fissava insistentemente alla ricerca di una risposta da parte mia. Era incredulo e perplesso per il mio silenzio.
Ero così agitata che la mia mente andò in blackout e non ricordai più niente. L’unica cosa che mi urlava in testa era di non farmi scoprire dicendo il mio vero nome.
Guardai Maya alla ricerca di aiuto, ma si stava baciando con Lucky.
Ritornai con lo sguardo su Lorenzo.
Mi stava ancora fissando e io mi sentii ancora più braccata di prima.
Ero tentata di scappare e sparire per sempre, ma per fortuna il barman venne in mio soccorso, porgendomi il Bellini.
Cercando di controllare il tremore e l’affanno, afferrai il calice.
Ruotando sullo sgabello per alzarmi, le mie ginocchia si scontrarono lievemente con quelle dell’uomo e mi sentii mancare il fiato.
Alzai lo sguardo nella speranza di leggere indifferenza o disattenzione nei suoi occhi, ma mi ritrovai fulminata dall’oscurità delle sue pupille dilatate.
Nel suo abito nero mi ricordava una pantera prima di attaccare la sua preda.
«Mi scusi», soffiai debolmente, scostandomi in fretta e avviandomi verso la mia amica.
Stavo per fare un passo lontano da colui che stava distruggendo il mio autocontrollo, quando sentii una morsa ferrea ma delicata intorno al braccio.
Mi bloccai spaventata e vidi la mano abbronzata di Lorenzo sulla mia pelle chiara.
Gemetti in preda all’ansia.
Quando un Orlando e un Rinaldi entravano in contatto, finiva sempre nello stesso modo: con la morte di uno dei due.
In quel momento compresi con certezza che quella ad avere meno chance di sopravvivenza ero proprio io.
Non sapevo che espressione avessi sul mio viso, ma dovette essere abbastanza eloquente perché Lorenzo mi lasciò andare.
«Non potete stare qui», mi sussurrò vicino, mentre la sua mano curata e grande si allontanava dal mio braccio esile e provato da quell’esperienza surreale.
Rimasi a bocca aperta. Come aveva fatto Lorenzo Orlando a scoprire che ero una Rinaldi?
«Io… io…», farfugliai, incapace di trovare una scusa plausibile.
«Non accetto freelance e in questo momento non ho intenzione di assumere altre accompagnatrici», mi avvisò severo, indicandomi con un cenno del capo un gruppo di donne eleganti e sexy che flirtavano e chiacchieravano amabilmente con alcuni clienti.
Accompagnatrici?!
Lorenzo mi aveva scambiata per una escort!
Mi guardai il vestito e mi resi conto che era molto audace, ma non credevo di poter essere scambiata per una donna di facili costumi.
Inoltre, consideravo meschino e gretto farsi un’idea su una donna solo dal suo abbigliamento.
Alzando il mento e assumendo l’atteggiamento più stizzito e altezzoso possibile, mi avvicinai con calma a quell’uomo che in quel momento avrei voluto prendere a calci.
«Non sono una prostituta», mi offesi, riacquistando la voce grazie alla rabbia improvvisa che mi stava scorrendo a fiotti nelle vene.
«Nemmeno loro. Sono semplici accompagnatrici. Se poi offrono servizi aggiuntivi, non è affar mio. Basta che lo facciano lontano da qui», ribatté lui preso in contropiede dal mio tono inaspettatamente poco accondiscendente.
«Allora mi correggo: non sono un’accompagnatrice», risposi risoluta e acida.
«A volte le apparenze ingannano», contrattaccò lui deciso ad averla vinta. A quanto pareva non ero l’unica ad aver preso sul personale l’atteggiamento poco disponibile dell’altro.
Sorrisi dentro di me, perché percepivo la voglia di combattere la mia battaglia e portare la vittoria a casa.
Non sapevo da dove mi venisse tutto quel coraggio dopo aver provato così tanta paura… forse era l’adrenalina che mi caricava come una molla.
«Non si preoccupi. La perdono. Posso capire che una persona da poco reintegrata possa avere dei momenti di confusione ed equivocare l’inequivocabile.»
«Reintegrata?», ripeté lui perplesso ma con una lieve sfumatura minacciosa nella voce. Era evidente come stesse facendo un notevole sforzo per non attaccarmi.
Mi feci forza proprio grazie al suo autocontrollo, che intendeva mostrare senza cedere. Conoscevo quell’orgoglio e sapevo che cosa nascondeva.
«Sì. Lo ammetta: da quanto è fuori? Due giorni? Una settimana?»
«Fuori da cosa?», mi chiese asciutto, non senza un notevole sforzo, anche se sapevo che conosceva già la risposta.
«Di galera, ovviamente. So riconoscere una persona quando esce di prigione e fa fatica a riadattarsi alle convenzioni sociali.»
Per un attimo spalancò la bocca per lo stupore. Sicuramente non era abituato a sentirsi parlare in quel modo, ma era troppo impostato per mandare all’aria quella maschera di uomo perfetto che indossava in presenza di altri.
«Cosa le fa pensare che io sia appena uscito di galera?», sibilò Lorenzo con gli occhi a fessura e la mascella contratta.
«Dal suo aspetto.»
«Dal mio aspetto», ripeté calmo come la quiete prima della tempesta.
«Sì. Insomma, quei capelli non vedono le forbici di un barbiere e un pettine da un po’ di tempo», rincarai la dose indicandogli la chioma perfettamente acconciata in modo disordinato, ma senza perdere di eleganza. «Anche quel cenno di barba le conferisce un’aria vissuta, un passato scapestrato… Senza parlare delle occhiaie sotto gli occhi, non fanno presagire sonni tranquilli ed è comprensibile. Penso sia difficile dormire in una cella con un estraneo che potrebbe avere delle intenzioni poco rassicuranti. Purtroppo non esiste ancora una legislazione efficace contro le molestie sessuali tra detenuti, quindi ha tutta la mia comprensione.»
«Credo di aver capito il concetto», mi fermò, incapace di ascoltare altro uscire dalla mia bocca. «E mi dispiace per lei, ma si sbaglia. Non sono mai stato in galera.»
«A volte le apparenze ingannano», esclamai con un sorriso malefico e un’alzata di spalle, ripetendo le sue stesse parole.
«Touché», sussurrò con un mezzo sorriso, capendo la mia intenzione di vendicarmi per essere stata scambiata per un’accompagnatrice.
«Mi permetta almeno di offrirle da bere», cercò di scusarsi quando feci per andarmene. Lo guardai in viso e l’espressione di sfida, della serie “Non finisce qui” mi mise in allarme.
«Non accetto regali dagli sconosciuti», lo bloccai subito, mettendo sul bancone una banconota che copriva il costo del Bellini e lasciava al barman una lauta mancia.
«Ero convinto non fosse necessario ma… ok, mi presento. Sono Lorenzo Orlando, il proprietario del Bridge», mi disse porgendomi la mano.
Guardai quella mano tentatrice e mi venne il batticuore.
L’idea di toccarlo mi portava a pensare di fare qualcosa di proibito e punibile nel peggiore dei modi.
Ginevra, stai giocando con il fuoco!
Tutta la spavalderia di prima mi abbandonò con la stessa rapidità con cui era arrivata.
«Giuro che non mordo», mi sussurrò, notando il mio tentennamento nello stringergli la mano.
«Mia, dove ti eri cacciata?», eruppe Maya facendomi venire un colpo. Non l’avevo vista avvicinarsi e non mi aspettavo il suo braccio intorno alle spalle.
La guardai brevemente e compresi che era venuta in mio soccorso.
«Mia», ripeté Lorenzo pensieroso.
«Sì, Mia Madison e io sono Chelsea Faye. Piacere. Il suo locale è bellissimo. Complimenti!», s’intromise Maya stringendo la mano a Lorenzo al mio posto e interponendosi tra me e lui, come se volesse difendermi.
«Grazie», le rispose lui con un sorriso artefatto, volto a nascondere l’irritazione per quell’interruzione. «È la prima volta che venite nel mio locale?»
«Sì. Siamo a Rockart City solo di passaggio. Caspita! Si è fatto tardi e ora dobbiamo andare, ma spero di avere la possibilità di tornare presto», si scusò Maya con aria allegra. Solo lei riusciva a sembrare così spontanea e contenta, anche quando la situazione era tesa.
«A presto, allora», rispose l’uomo educatamente, rivolgendomi lo sguardo per l’ultima volta prima di allontanarsi.
Accennai appena un saluto con il capo.
«Che diavolo stava succedendo?», sbottò Maya quando rimanemmo sole.
«Niente», mormorai con un filo di voce, incapace di immaginare cosa sarebbe potuto accadere.
«Quando ti ho vista con lui, mi è sembrato di impazzire. Ti ho trascinata fino a qui per divertirci, non per farti ammazzare», mi disse agitata, rubandomi il Bellini ancora intatto e scolandolo in poche sorsate per calmare l’agitazione. «Forza, andiamo! Ho detto a Lucky che hai il coprifuoco e che devo portarti a casa prima delle due di notte», mi disse, prendendomi per un braccio e trascinandomi verso l’uscita.
«Signorina, mi scusi», mi si parò davanti un receptionist, porgendomi una tessera nera con la scritta dorata “The Bridge. Orlando’s Night”. «Il signor Orlando mi ha chiesto di darle uno dei nostri pass in omaggio, in segno di scuse per l’equivoco di cui è stata vittima. Il signor Orlando ha a cuore i propri clienti e ci tiene che rimangano soddisfatti del servizio ricevuto. Questo pass le permetterà di avere un ingresso privilegiato e una consumazione gratuita per lei e i suoi ospiti.»
«Non occorre, ma ringrazi il titolare per il pensiero e gli dica che ho già dimenticato il nostro malinteso», risposi gentilmente e arrossendo per quell’accortezza.
Lorenzo Orlando, mi avresti offerto un pass o un biglietto di sola andata per l’inferno, in caso avessi saputo che sono la figlia del boss Edoardo Rinaldi?
«La prego», mi supplicò, scioccato dal mio rifiuto. Non sapeva che non avrei mai potuto portare a casa una tessera simile se non volevo rischiare la pena di morte da mio padre.
«Grazie per il pass!», s’intromise Lucky, prendendo la scheda al mio posto. «Mia, sei impazzita? Sai quanto costano questi pass?»
«Vuoi inimicarti la famiglia Orlando?», si accodò Mike.
«No, io…», farfugliai a disagio, ma Maya mi prese per un braccio e mi portò fuori dal locale, verso il parcheggio.
«Torniamo a casa», sospirò Maya sollevata, dopo un frettoloso saluto ai due ragazzi.
Entrammo in macchina.
Passammo sul ponte del Safe River e, con mia sorpresa, notai che il batticuore che avevo avuto da quando ero passata di là all’andata non era cessato.
Era come se quella serata mi avesse lasciato addosso qualcosa di travolgente e di così potente da non abbandonarmi più.

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